domenica 11 febbraio 2018

Macerato

L’assassinio di Jo Cox, la deputata laburista, da parte di un fanatico appena una settimana prima del referendum sulla Brexit non ha avuto effetto su quel voto. Nonostante l’esplicita rivendicazione al grido di “questo è per il Regno unito” da parte dell’assassino, nonostante la unanime condanna della stampa britannica, nonostante i sondaggisti fossero certi che quel crimine avrebbe spinto gli incerti ad un voto emotivo a favore del Remain sostenuto dalla Cox. Non credo che, neppure da noi, la caccia all’immigrato lanciata da Luca Traini per le strade di Macerata, nonostante la candidatura a livello comunale per la Lega, il tricolore sulle spalle, e il saluto romano, sposterà voti nelle elezioni, tra meno di un mese. Penso che neppure la reazione, nella tragedia così simile alla barzelletta del io non sono razzista è lui che è negro, di Matteo Salvini, il fulmineo rovesciamento logico per cui la colpa del pogrom è di chi ha lasciato entrare in Italia profughi e immigrati, gli costerà sul piano elettorale. E’ quello che i suoi elettori pensano da tempo, ma anche fuori dalla destra, come diceva Foucault “ciò che io dico non è esattamente ciò che io penso, ma è frequentemente quello che mi chiedo se non potrebbe essere pensato”. Per questo lo scatto di automatica superiorità morale che in queste ore ci stiamo spalmando addosso come un balsamo, noi siamo buoni e civili, quello è il volto del male, loro sono il clintoniano basket of miserables, come in America dopo ogni strage in un campus, temo non ci porti lontano. Ovviamente si, è vero. Traini è un criminale, probabilmente corto di cervello, certo intossicato di propaganda e di paure. Salvini e Meloni ( ma allora di volta in volta anche Casaleggio senior, Grillo, Di Maio e Minniti) agitano e rimestano nel calderone del maleficio che sta sobbollendo da anni. Dalla strage di Castel Volturno, agli spari contro i vu cumprà senegalesi di Firenze, agli sgomberi di Piazza Indipendenza a Roma, cui si oppongono dall’altra parte le picconate di Kabobo o il massacro di Pamela Mastropiero. Ovviamente è tutto vero. Ma abbiamo scelto un terreno di scontro facile, elementare, viscerale e, la storia insegna, sostanzialmente inutile. Penultimi che scalciano gli ultimi, ultimi che si abbrancano ai penultimi, sulla scaletta che porta su dalla allagata terza classe del Titanic, verso il ponte. Quando l’acqua sale, la ragione si inabissa. Se non si contesta la rotta della nave, se non si critica il capitano per la folle velocità della corsa, se nessuno ha soprattutto pensato al numero delle scialuppe, nessuno può dirsi estraneo alla catastrofe morale che segue, e seguirà, quella materiale

lunedì 5 febbraio 2018

La notte della Repubblica

Provo a volare più alto degli stracci. E lo faccio partendo da una frase di Carlo De Benedetti in una intervista, se ricordo bene, sull’Espresso di tanti anni fa. “Il partito comunista ha un prodotto pessimo ma un marketing eccezionale”. La storia dei primi venti anni di Repubblica è parte integrante di questa frase. Perchè il compito in parte esplicito, in parte obbligato di quel tratto della parabola fu, in sostanza, proprio questo. Sturare il naso tappato da Montanelli, abbattere il muro che divideva l’Italia, rendere accettabile e pienamente spendibile nella democrazia bloccata del nostro paese, quel terzo all’incirca di cittadini e quelle forze sociali e intellettuali che erano bloccate, incistate, negli equilibri della guerra fredda. Di fatto era la continuazione con altri mezzi delle strategie di Moro e Berlinguer, perfino del prima amicissimo e poi nemicissimo Cossiga. E per questo fu scontro, anche all’interno del giornale, con il craxismo che quel blocco voleva mantenere per ottenere non la liberazione dal ghiaccio ma la mutazione genetica dei comunisti, dopo aver realizzato quella dei socialisti. Repubblica, intellettuale collettivo, capace di esercitare l’egemonia culturale sulla sinistra. Quando il combinato disposto di Mani Pulite, della crisi economica, del crollo del comunismo reale si manifestò, Repubblica, la prima Repubblica, era di fatto il governo del paese. I nemici trascinati nelle aule di tribunale o assediati dalle televisioni nel cortile della Sapienza. Tra la vittoria dei sindaci di sinistra e la nomina del governo Ciampi era il sistema Repubblica a trionfare. Non dimenticherò mai la trionfale vasca di Transatlantico di Eugenio in occasione della fiducia al governo dell’ex governatore di Bankitalia. Ma, come sappiamo, quella vittoria venne ghermita e lacerata dall’emergere del Caimano. Il blocco sociale, prima nascosto nel ventre del pentapartito dimostrava, come disse con straordinaria acutezza Alberto Cavallari, di aver attraversato intatto il cinquantennio repubblicano così come la russia zarista era riemersa identica al crollo del comunismo. La Prima Repubblica (entrambe) aveva in un certo senso fallito. Bisognava cambiare prodotto, il marketing non bastava più. E la Seconda Repubblica (entrambe) spesero i successivi vent’anni nel tentativo di crearlo. Fallendo. Non credo mi faccia velo il sacrificio umano di mio padre, unica differenza strutturale tra la Prima e la Seconda Repubblica giornalistica, chiesto per altro esplicitamente dalla proprietà. ”Pensi che farei un piacere alla proprietà e anche a Ezio Mauro, se mi levassi dalle palle” “Credo proprio di si”, rispose Eugenio. E credo caso unico nella storia, ad un condirettore uscente non fu affidata neppure una rubrichetta su qualche testata dell’ormai tentacolare gruppo editoriale. Il cambio di prodotto, che doveva approdare al PD, si realizzò nella erratica congerie di tentativi di battere il blocco sociale e, oggi si può dire sentenze alla mano, criminoso del centrodestra. Ma quel prodotto, come ogni prodotto politico, aveva bisogno di una mitologia. Decaduta quella berlingueriana della sinistra austera ed eticamente superiore, rimaneva quella dell’Europa. Capace di raddrizzare con i suoi vincoli il legno storto della società italiana e, chissà, di fare argine all’Unfit che se ne era impossessato. Purtroppo la nuova metafisica, alla dura prova dei fatti, non si sarebbe dimostrata meno fallata dell’altra. Mentre il prodotto, esperimento dopo esperimento bruciava Prodi, D’Alema, Amato, Rutelli, Fassino, Veltroni, Franceschini, Bersani, Letta e Renzi, ogni sua nuova versione spostava sempre più, da una legge Treu fino all’abolizione dell’articolo 18, il baricentro verso un centro tanto immaginario quanto inafferrabile elettoralmente. Ed ogni cedimento, come nel tiro alla fune, rendeva solo più forte l’avversario. Quando la nuova crisi esplose, l’intervento europeo tra risatine e manovre sullo spread sembrò poter riuscire in quello cui il prodotto aveva fallito. L’epifania di Monti, un colpo di genio di Napolitano, sostenevano all’unisono Editore e Fondatore sembrò loro un secondo governo Ciampi, invece del commissario liquidatore, su programma dei governatori francofortesi, di ogni residua istanza di centrosinistra. Dalla concertazione alla sua abolizione, tanto per dirne una di metodo. Non si rendevano conto, entrambi e con loro quell’eccellente professionista di Mauro che essi erano il bambino all’interno dell’acqua sporca che stavano gettando via. Ricordo la paternalistica, inusitata violenza verbale con cui Eugenio liquidava, quasi diseredandola del suo cognome, i dubbi di Barbara Spinelli sulla traiettoria dell’Europa reale, mentre si tesseva il quotidiano panegerico su Ventotene. E se quella era la linea, allora e inevitabilmente, il nemico impercettibilmente, inavvertitamente non era più il Mackie Messer degli editoriali anni 90, ma il populismo grillino. Per loro Hyksos, di raccapricciante ignoranza, di aspetto tanto spaventoso quanto dovevano sembrare i proletari, fangosi e monocigliuti, ad un nobile zarista. Il prodotto dunque si schierò tutto a guardia dell’argine, ma guardando verso terra, ove resta tuttora. Ignaro, quasi tuttora, che alle sue spalle ruggisca il fiume montante di una destra cui, lasciato il campo completamente libero nel sociale, non resta che rivendicare anche il razzismo. Per cui non errore di un ingrato, svanente, nonuagenario , ma inevitabile compimento di una strategia diventa l’endorsment al Caimano piuttosto che allo “sfaccendato” di Deluchiana definizione. E quando l’Editore, oggi, rimprovera il Fondatore è solo un tragico Dorian Gray alle prese con il suo ritratto.